L'abbraccio di questo chiostro

(Luca Giordano)


Sembra una danza, da destra e da sinistra le sorelle s’incontrano nel tempo e nello spazio di fronte all’altare in due o tre, fanno l’inchino col busto e si inginocchiano con movimenti ricchi di passato e di abitudini, automatismi colmi di attenzione. 

Ho la sensazione che la compieta sia davvero il momento più attraente per me. Molto bello anche il momento dell’alba con le lodi e la meditazione ma la compieta trasporta quel mix così umano e straordinario di nostalgia, gratitudine e timore, la nostalgia di qualcosa ch’è scivolato al termine come la giornata da salutare, la gratitudine per questo permesso ad esserci stati con la vita, e il timore prima dello spegnimento delle luci, del Sole come della coscienza. 

La notte all’eremo stende un primo potente silenzio, tutto il bosco rimane sommesso dalla sontuosità della preghiera che riempie tutti gli scorci della grande struttura. Nonostante la compieta si svolga quasi subito dopo cena e non duri molto lasciandomi fuori dalla chiesa tutto sommato poco dopo le 22, fuori sembra già di essere nel pieno della notte, un pieno riconoscibile pian piano dai suoni più incredibili e impercettibili laddove invece il ritmo mondano corrompe la notte come il giorno. Si ode il muoversi di ogni minuscolo essere, delle farfalle notturne con il loro crepitio alare, dei piccoli mammiferi nel bosco, delle gocce cadenti da una foglia all’altra riserve del piccolo temporale di poche ore fa, ogni spostamento della natura. La mia sensibilità uditiva sembra così affinarsi con la volontà di acquietarmi, mi avvinco ora di un ingrediente quasi sopraffino e più sottile, un onirico e reale senso dell’udito tra terra e cielo. Passa una lucciola e voglio scorgerne il rumore del marchingegno che rende la sua luce intermittente a intervalli così regolari, più lontano scorgo il fendere della luce della luna attraverso i rami degli alberi e ancor di più la carezza di una mano nell’appianare la grinza nel lenzuolo di una qualche stanza lontana, nella zona della clausura. 

E’ la terza volta che vengo in questo posto. Parecchi anni fa, navigando su internet alla ricerca di un luogo dove poter svolgere il mio lavoro con un laboratorio di gruppo sulle relazioni, trovai delle foto meravigliose di questo eremo e fu facile capire che di meraviglioso c’era il luogo più che la bravura del fotografo. Provai a chiamare per chiedere ospitalità ma una voce al di là della cornetta mi disse chiaramente che questo è un luogo di preghiera dove il bisogno e il piacere di pregare sono i soli ospiti veramente accolti. Sono passati degli anni poi, la mia vita si è riempita di esperienze verso e dentro orde di pratiche alla ricerca del benessere e di tecniche per incentivarlo nella vita delle persone. Da psicoterapeuta, perché questo è il mo lavoro, ho sempre avuto fame come si usa dire e la mia gola, soprattutto in quegli anni adolescenti professionalmente, ha voluto sfamarsi con i cibi più disparati e dallo spumeggiante richiamo. Me ne stavo con un piede saldo sull’orgoglio riposto nel mio approccio psicoterapeutico e con l’altro assaggiavo un po’ di tutto in terreni sempre lontani dallo spirito battesimale a cui appartengo, un a priori inevitabile e quasi tenero, come un adolescente alla ricerca della propria quiete. Così per un po’ di anni, anni colmi di flash e di luci, rimbalzi, suoni e schiamazzi come in un flipper, un pazzo entusiasta e superbo spettacolo della gola e dell’orgoglio. 

In questo chiostro illuminato dalla luce di una Luna scaltra seppur non in forma piena i miei pensieri viaggiano con le traiettorie di queste simpatiche farfalle notturne, alcune che spiccano con sfumature cromatiche nonostante il velo unificante della notte e che, magari quando continuano a sbattere le ali da ferme, sembrano fremere d’eccitazione per il prossimo volo. 

Tre volte qua dicevo. La prima vicino al Natale, per qualche giorno da solo. Vi trovai un luogo fisicamente gelato, le coperte che una sopra l’altra non riuscivano a difendermi dal freddo, ma in compenso m’aspettava l’impagabile calore negli sguardi e nelle accortezze delle sorelle. C’era pure un signore anche lui ospite che intento a dipingere nella stanza sotto alla foresteria partoriva in quei giorni una splendida icona di S. Caterina da Siena destinata alla parete posteriore della chiesa. La seconda volta abbracciai l’eremo invece nel periodo della primavera, anche stavolta da solo ritrovandomi convivente di alcune signore del nord in foresteria. Si ritrovavano mattina e pomeriggio per le loro catechesi e condivisioni bibliche ed io sibillino che sgattaiolavo dalla loro volontà di aggregarmi con la voglia di respirare invece la potenza di quel bosco di lecci tutt’intorno con la sua rinascita stagionale, le rintracciabili storie, le naturali memorie. 

E questa volta invece non sono da solo. Stasera la mia camera è la prima alla destra del piano giungendo dalle scale e alla sinistra c’è quella della mia compagna che sta dormendo. Se fossimo sposati staremmo nella stessa stanza anche se le sorelle non si esimerebbero certo dal prepararci due letti distinti e mi vien da sorridere pensando a come avrei giudicato tutto questo in quegli anni del piede saldo nell’orgoglio e dell’altro goloso a priori, quando la verità sembravo cercarla lontana dal sacro a prescindere. Sorrido, io alla destra della scala e la mia futura moglie alla sinistra. Tra poco più di un mese ci sposeremo davvero e questa scala ripartirà; devo pensare che ci saranno piani inferiori e superiori sempre per due e che il luogo sarà sempre uno per entrambi, nessuna discesa o salita solo mia o solo sua? 

Tremo un pochino adesso. Cavalco d’impeto un fremere al centro del petto, guardo queste farfalle notturne che mi fanno compagnia e una di esse si ferma sulla mia gamba e continua a sbattere le ali, la osservo, per un po’ mi perdo. Sento così le mie idee allontanarsi e l’espandersi di un morbido vuoto, una materna solitudine, il mio respiro, il battere del cuore, spogliato di trame chiudo gli occhi e mi affido per un po’ all’abbraccio di questo chiostro.