L'io diviso

(Bruno Caruso)

appunti di Federica Parri
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Scritto all’età di 28 anni, questo testo era stato originariamente concepito come il primo di una serie di studi di psicologia e di psichiatria esistenziale che non avrebbe in realtà avuto seguito. Con i suoi scritti Laing divenne il “papa dell’antipsichiatria”, nonostante egli abbia spesso provato a scrollarsi di dosso questa immagine. L’equivoco era derivato dal fatto che le sue teorie, dalla fine degli anni ’50 in poi, avevano ripreso e articolato una serie di posizioni le cui radici appartengono alla tradizione della psicopatologia fenomenologica europea e agli studi sui disturbi della comunicazione nella schizofrenia. Laing scrive rispetto al suo libro:- Quando ho scritto il libro avevo 28 anni: volevo soprattutto dimostrare che, contrariamente a quello che generalmente si crede, è possibilissimo capire gli psicotici.-
L’autore cerca di scoprire un intento comunicativo nei sintomi, tenere conto del nucleo di verità che si esprime in ogni deliro significa vedere il sintomo come qualcosa intorno a cui si è agglutinato ciò che la clinica chiama sintomo di malattia, ricordare che dietro quel granello c’è una storia, un percorso la cui ricostruzione può, almeno in parte, rendere ragione di quel sintomo.

Il libro inizia con la definizione del termine schizoide, l’autore designa con tale termine un individuo la cui totalità di esperienza personale è scissa a due livelli principali: nei rapporti con l’ambiente e nei rapporti con se stesso. Questo individuo non è capace di sentire insieme agli altri, né di partecipare al mondo che lo circonda, ma, al contrario si sente disperatamente solo e isolato; dall’altra non si sente una persona unitaria e completa, ma si sente diviso in vari modi: può sentire mente e corpo uniti da legami incerti o come due o più persone distinte. Le cose dette e fatte da uno schizofrenico sono destinate a restare assurde e inspiegabili se non analizzandole da un punto di vista fenomenologico esistenziale.

Laing biasima la terminologia psichiatrica perché ritiene che le parole usate servano solo per tenere a distanza il paziente e per isolare un’entità clinica dal resto della vita del soggetto in esame. Sfida le teorie comuni dicendo:- Tocca a noi vedere se riusciamo a sopravvivere senza far ricorso ad una teoria che è, in qualche misura, uno strumento di difesa.- (pag. 14.)

Sottolinea che al di là del disturbo che i pazienti portano allo psichiatra, il paziente porta nella situazione terapeutica il suo essere nel mondo. Afferma che ogni aspetto del suo essere ha un qualche rapporto con tutti gli altri, anche se poi possa risultare tutt’altro che chiaro in che modo i vari aspetti si articolino. Il compito della fenomenologia esistenziale consiste appunto nell’articolare il mondo dell’altro e il suo modo di esservi. Per far questo è necessario saperci orientare nel mondo dell’altro, anziché limitarsi ad osservare l’altro come oggetto del proprio mondo. Un altro aspetto cruciale dell’essere dell’uomo, che viene evidenziato, è l’essere al tempo stesso separato dai suoi simili ed in rapporto con essi. Il nostro rapporto con gli altri infatti è un aspetto essenziale dl nostro essere, tanto quanto lo è la nostra separazione da loro. La psicoterapia è un’attività in cui viene L’autore afferma, sulla base del principio che questo rapporto è potenzialmente presente in ognuno, può non essere una perdita di tempo star seduto per delle ore accanto a un catatonico, che da tutti i segni di non riconoscere la sua esistenza.

In gergo psichiatrico la psicosi è un mancato aggiustamento biologico o sociale, un disadattamento grave, una perdita di contatto con la realtà. Per l’autore questa definizione è un vero e proprio vocabolario di denigrazione.

Si possono osservare nel comportamento del paziente psichiatrico i “segni” di una “malattia”; e si può considerare il suo comportamento come l’espressione della sua esistenza. La costruzione fenomenologico-esistenziale è un’inferenza sul modo con cui l’altro sente e agisce. Laing suggerisce, provocatoriamente, il seguente criterio per valutare la salute mentale di un individuo: il grado di convergenza o di divergenza esistente tra due persone, una delle quali sia, per comune senso, sana di mente. Quindi il test per stabilire se una persona è psicotica è un difetto di convergenza, un urto fra lui e me.

Viene analizzata la costruzione della personalità psicotica: nell’infanzia pensiamo che l’adulto possa guardarci dentro ma, dopo aver raccontato la prima bugia, l’adulto “sano”, scopre che non è così, questo ci apre alla realtà di essere irrimediabilmente soli. Alcuni di noi non si realizzano mai in questa forma, ma rimangono vulnerabili, più esposti e più isolati. L’uomo irreale, lo schizoide, ha imparato a nascondersi in conseguenza a questa estrema vulnerabilità Ha imparato a piangere quando era allegro e a ridere quando era triste. Ma egli può essere qualcuno soltanto in quello che vediamo noi: e se quello che vediamo, le sue azioni, non sono il suo vero io, allora egli è irreale davvero; è qualcosa di ambiguo e del tutto simbolico.

Questo studio riguarda le cose che succedono quando vi è un’assenza o un difetto delle certezze derivanti da una condizione esistenziale che viene chiamata dall’autore insicurezza ontologica primaria, e quando al loro posto vi sono ansietà e pericoli che riguardano la vita e le sue difficoltà di ordine sociale, etico, spirituale, … In circostanze normali, la venuta al mondo di un nuovo organismo vivente coincide con l’inizio di rapidi processi, in virtù dei quali il bambino si sente vivo e reale. Ma può accadere, anche in circostanze di vita ordinarie, che l’individuo si senta più irreale che reale, letteralmente più morto che vivo; differenziato in modo incerto e precario dal resto del mondo, così che la sua identità e la sua autonomia sono sempre in questione. E’ inevitabile che un individuo le cui esperienze di se stesso siano di quest’ordine non possa vivere in un mondo “sicuro”, più di quanto possa sentirsi sicuro in se stesso. Se l’individuo non è in grado di accettare come cose naturali la realtà, l’autonomia, l’essere vivo suo e degli altri, deve continuamente inventare dei modi per cercare di essere reale, di mantenersi vivo o di mantenere vivi gli altri, di conservare la sua identità; deve lavorare continuamente per impedire a se stesso di perdersi. Così questo individuo comincia a vivere in un mondo proprio, un mondo diverso e incomunicabile. L’autore descrive tre forme di ansietà di cui soffre la persona ontologicamente insicura:

· Risucchio. Per poter avere un rapporto da essere umano con un’altra persona è necessario possedere un senso solido della propria autonomia: se non è così, ogni rapporto minaccia l’individuo di perdita dell’identità. Il risucchio è vissuto come il rischio costante di essere compreso (quindi preso), o di essere amato, o semplicemente di essere visto. La manovra principale cui si ricorre per conservare l’identità consiste nell’isolarsi.

· Implosione. Sentire il mondo come qualcosa che da un momento all’altro può sfondarci e cancellare qualunque traccia della nostra identità. L’individuo si sente vuoto. Ma questo vuoto è lui stesso: sebbene desideri che il vuoto sia riempito, egli teme la possibilità che ciò avvenga, perché si è andato convincendo di non essere null’altro che questo vuoto.

· Pietrificazione e spersonalizzazione. Se si sente l’altro come libero agente, si è esposti alla possibilità di sentire se stessi come un oggetto della sua esperienza e quindi di sentirsi prosciugare dalla propria soggettività. Sotto l’effetto di quest’ansia l’atto stesso di sentire l’altro come persona viene vissuto come un atto potenzialmente suicida.

In questi pazienti spesso si trova una dicotomia tra ciò che sentono come loro io e la loro attività osservabile o il “sistema dell’io falso”. Il falso io può consistere in un amalgama di diversi io parziali, nessuno dei quali ha raggiunto uno sviluppo sufficiente per possedere una sua propria personalità. Spesso quando si conosce una persona di questo tipo si comprende come la sua attività visibile sia composta di ruoli impersonati affatto deliberatamente e di molti altri comportamenti a carattere coatto: siamo in presenza non di un unico falso io, ma di numerosi frammenti, solo in parte elaborati, di ciò che potrebbe costituire una personalità, se uno di essi potesse dominare gli altri.

L’io, nell’organizzazione schizoide, è di solito più o meno incorporeo, viene cioè vissuto come un’entità mentale. L’individuo non si sente partecipe delle azioni dell’io ma anzi le sente futili, l’io è estremamente conscio di sé e osserva con senso critico il falso io. L’io può sentirsi in pericolo di essere invaso dal sistema del falso io, o da una sua parte. I rapporti con se stesso diventano quindi rapporti pseudo interpersonali: l’io tratta i falsi io come se fossero altrettante persone diverse, e li spersonalizza. Si può scorgere in tutto questo un tentativo di creare internamente un mondo di rapporti con persone e cose, senza bisogno di ricorrere al mondo esterno. I vantaggi di questo progetto irreale sarebbero: sicurezza per il vero io, isolamento dagli altri e quindi libertà, autosufficienza e controllo.

Gli svantaggi che ne derivano sono: l’intrinseca impossibilità del progetto e la disperazione che ne consegue e un senso continuo di futilità derivato dal vivere esclusivamente mentalmente. Inoltre, essendo isolato, l’io non è suscettibile di arricchimento per via di esperienze esterne, e di conseguenza l’intero mondo interiore si impoverisce sempre più, finché l’individuo può arrivare a sentirsi completamente vuoto.

Nessuno, più dell’individuo schizoide, si sente vulnerabile ed esposto allo sguardo di un’altra persona. Se non prova un acuto imbarazzo quando è visto vuol dire che ha temporaneamente evitato di sentire l’ansia e ciò può avvenire attraverso due meccanismi: o ha trasformato in un oggetto l’altra persona, spersonalizzando quindi i suoi sentimenti nei suoi confronti, o ha assunto un’aria indifferente.

Per lo schizoide una partecipazione diretta alla vita equivale al rischio costante di essere dalla vita stessa distrutto, perché l’isolamento dell’io costituisce un tentativo di preservare se stesso, dovuto all’assenza di sicurezza della propria integrità e della propria autonomia.

Se un uomo ha due dimensioni, stabilite da una congiunzione fra “identità per gli altri” e “identità per sé”; se non esiste tanto oggettivamente che soggettivamente, ma possiede solo un’identità soggettiva allora quest’uomo non può essere reale.

Il testo si sviluppa con una serie di esempi, sottoforma di casi clinici, che chiariscono il sistema del falso io e ne fanno emergere ulteriori sfumature e chiarimenti. Laing nota che gran parte della schizofrenia è fatta di sciocchezze, di ostruzionismo verbale prolungato il cui scopo è di disorientare le persone pericolose, e di annoiare le altre. Spesso lo schizofrenico prende in giro se stesso e il medico: gioca ad essere pazzo perché vuole evitare di essere ritenuto responsabile di una sola idea coerente. Ma se trova una persona che lo può capire lo sente e ci si affida.

Continua parlando della dolorosità della scissione dell’io dal corpo e del desiderio del paziente che qualcuno lo aiuti a sanare questa divisione; essa, però, viene utilizzata, al tempo stesso, come mezzo principale di difesa. L’io desidera restare congiunto con il corpo, ma teme in continuazione di alloggiarvi, perché crede che così facendo sarebbe sottoposto ad aggressioni e pericoli di ogni genere senza poter fuggire. Ma anche ponendosi al di fuori del corpo scopre di non poter conservare i vantaggi in cui sperava. Ciò che accade, riassumendo, allora è:

1. L’orientamento generale dell’io è di salvare la sua vita senza assorbire nulla e diviene perciò arido.

2. L’io si carica di odio per tutto ciò che sta “fuori” ma l’unico modo per distruggere ciò che sta fuori è distruggere se stesso.

3. Il tentativo di distruggere l’io può essere intrapreso deliberatamente. Esso è in parte una manovra difensiva, in parte un tentativo di obbedire al senso di colpa che opprime l’individuo.

4. L’io interiore si divide a sua volta, perdendo la sua integrità e identità.

5. Il rifugio dell’io diventa una prigione, l’io è infatti perseguitato da frammenti concretizzati di se stesso divenuti incontrollabili.