La querelle sulle immagini mentali


(Johnny Pixel & Irene Manera)

articolo di Marco Ceccanti
Un’antica constatazione della filosofia greca riconosceva nel senso della vista il primo strumento conoscitivo utile per l’essere umano. Nel suo scritto esoterico “Metafisica” Aristotele descrive il primato del vedere (idéin) come superiore a qualsiasi altra attività della mente. Il “vedere” infatti non ci porta solo alla "conoscenza" ma ci arreca anche un senso di “piacere” (edoné) riconosciuto e universalmente riconoscibile, che fonda un senso comune necessario alla buona comunicazione ed alla conoscenza stessa; questo “vedere” orientato alla conoscenza si esprime sotto forma di “immagini nel mondo” che prendono poi, attraverso la comunicazione, la consistenza del linguaggio. L’obiettivo di questo articolo è quello di esplorare con quali modalità psico-fisiche la mente dà origine ad un sistema di simboli mentali figurati, impiegati quotidianamente nella vita pratica: quali sono le loro proprietà naturali? Come li usiamo per conoscere e orientarci nel mondo?

L’analisi funzionale e la natura spaziale delle immagini mentali

La riflessione teorica e la ricerca sperimentale della psicologia cognitivista contemporanea pone i suoi interessi nella questione dell’“immaginazione visiva”, intesa come la ricreazione dell’esperienza percettiva in assenza della proiezione dell’oggetto sulla retina, ovvero in assenza di stimolo visivo esterno. Questa definizione è significativa perché presagisce una correlazione tra l’immaginazione mentale ed il processo percettivo. Questa caratteristica è da un lato sorprendente perché, le relazioni emerse da numerosi studi sperimentali sembrano indicare che la corrispondenza tra le immagini mentali e le immagini percettive è molto alta; dall’altro lato essa è ovvia perché è opinione comune credere che la nostra immaginazione visiva simuli la percezione: non a caso nel linguaggio di tutti i giorni si descrive tale fenomeno nei termini di un “occhio interno” che guarda una qualche sorta di disegno che siamo in grado di formarci mentalmente. Gli studi contemporanei si incentrano sul cercare di rispondere a queste domande non più attraverso l’analisi introspettiva della propria esperienza, ma attraverso esperimenti empirici che mostrino le vere abilità nella risoluzione di compiti che implichino l’uso dell’immaginazione visiva. Il quesito è il seguente: che cos’è un’immagine mentale?

Con l’avvento del cognitivismo le immagini mentali diventano uno degli argomenti più dibattuti per ciò che concerne la riflessione sulla mente. Il cambiamento di paradigma, dalle immagini come sensazioni indebolite alle immagini come simboli, è dovuto all’opera di tre autori: Jerome Bruner, Jean Piaget e Allan Paivio. Come sostiene Denis (1975) tali autori “presero chiaramente le distanze dalla tradizione associazionista (che vedeva le immagini come forme residue della sensazione) accentuando il ruolo delle immagini come prodotti finali dell’attività simbolica e la differenza di natura (piuttosto che di intensità) tra immagini e percetti. L’immagine mentale, come il linguaggio, fu associata alla funzione simbolica. Posta sullo stesso livello ma incorporata in modelli dell’attività cognitiva più ambiziosi e comprensivi”. Alle teorie proposizionaliste fondate sulla linguisticizzazione del pensiero, Paivio (1986,1991) contrappone la Dual Coding Teorie (DCT). Partendo dal presupposto che la cognizione consiste “nell’attività di sistemi simbolici rappresentazionali specializzati nello scambio di informazione con l’ambiente utile a fini comportamentali funzionali o adattivi” (Paivio 1986), egli sostiene l’esistenza di due sistemi separati: “uno specializzato nella rappresentazione e nell’elaborazione dell’informazione riguardante oggetti ed eventi non verbali, l’altro specializzato nel rapporto con il linguaggio”. I due sottosistemi sono funzionalmente e strutturalmente distinti; un aspetto di questa diversità è esemplificato nella natura modale delle rappresentazioni non linguistiche: “l’assunto teoretico guida è che le rappresentazioni interne (mentali) abbiano la loro origine evolutiva nell’esperienza percettiva, motoria e affettiva e che esse conservino le caratteristiche derivate esperienzalmente in modo che le strutture e i processi rappresentazionali siano specifici modalmente piuttosto che amodali”. In questo senso Paivio può essere considerato il vero punto di passaggio, secondo un’ipotesi continuista, da un concezione sensista delle immagini mentali ad una concezione simbolica. Assumendo che le rappresentazioni conservano le proprietà della specifica modalità sensoriale da cui dipendono, la teoria del doppio codice può configurarsi come la prima alternativa esplicitamente contrapposta alla tesi uniformista fondata sul carattere astratto delle proposizioni.

Il problema di fondo di chi crede nella specificità cognitiva delle immagini mentali è riuscire a garantire il loro carattere figurale, necessario per assicurare loro una peculiarità rappresentazionale, senza ricorrere alla metafora fotografica dell’introspezione. Il primo passo a tale riguardo è la dimostrazione del carattere spaziale delle immagini mentali: è da dimostrare il modo in cui le immagini riescono a rappresentare lo spazio (isomorficamente) che le distingue in maniera radicale dalle proposizioni.

Da un punto di vista generale, possiamo dire che le immagini sono particolarmente utili in tutti quei casi in cui la situazione che dobbiamo risolvere è insolita o comunque nuova; esse diventano allora un buon sostituto della realtà: ciò che caratterizza le immagini mentali da un punto di vista funzionale è che esse ci permettono di vedere gli oggetti (o gli eventi) in loro assenza. Questa capacità si rivela molto feconda nei processi cognitivi. Uno degli aspetti più caratteristici dell’azione intelligente è la possibilità di anticipare i risultati dell’agire sul mondo prima dell’agire effettivo. Per far questo sono necessarie strutture simboliche estremamente flessibili capaci di rappresentare non solo gli oggetti del mondo, ma anche le azioni possibili su di essi. Le immagini mentali rendono possibili operazioni interne che mimano le trasformazioni reali degli oggetti esterni permettendo di prevedere il risultato delle azioni su di essi. Come riescono a farlo? L’idea dei sostenitori dell’analisi funzionale è che queste operazioni “corrispondono a quelle sottostanti la percezione di come gli oggetti reali sono manipolati o trasformati” (Finke, 1989). Per giustificare questa capacità è necessario chiamare in causa uno degli argomenti di base della tesi di specificità delle immagini mentali: l’isomorfismo, ovvero l’idea per cui “i processi interni e le rappresentazioni sottostanti l’esecuzione di tali compiti sono strutturalmente analoghi alle operazioni esterne e agli oggetti cui esse corrispondono” (Cooper 1975).

L’inizio delle indagini empiriche dedicate allo studio dell’isomorfismo dell’immaginazione risalgono al 1971, quando nella rivista “Science” fu pubblicato un articolo dal titolo “Mental rotation of three dimensional object” ad opera di Roger Shepard e Jaqueline Metzler. L’ipotesi da cui si sviluppò il lavoro era che, se ruotare un’immagine nella mente è analogo a percepire un oggetto che ruota nella realtà, allora per compiere la rotazione di un angolo maggiore sarà necessario un tempo di elaborazione proporzionalmente maggiore. L’esperimento dimostrava che il tempo necessario per giudicare mentalmente l’identità di due figure tridimensionali differentemente orientate incrementa linearmente con la differenza angolare tra di esse. Questo esperimento sulla rotazione rappresenta una tappa decisiva per il dibattito sulle immagini mentali: ruotare un’immagine nella testa non è avere un’immagine nella testa che gira, ma riprodurre un’esperienza simile alla percezione dell’oggetto reale che gira. La teoria dell’isomorfismo trova una giustificazione nella relazione tra visione ed immaginazione. Come afferma Shepard infatti “le relazioni funzionali tra oggetti immaginati devono in qualche grado rispecchiare le relazioni funzionali tra quegli stessi oggetti effettivamente percepiti” (Shepard 1971). Come dice Kosslyn, però, “visto che le immagini mentali non hanno nessuna delle proprietà fisiche che limitano ciò che gli oggetti possono fare nella realtà” (Kosslyn, 1983), non c’è davvero ragione che gli oggetti mentali si comportino allo stesso modo di quelli reali. Come è possibile, allora, che le immagini mentali rispettino le leggi fisiche? Secondo Shepard (1984) la risposta a questa domanda deve essere cercata nelle relazioni tra organismi e ambiente nel corso della filogenesi. Il mondo si presenta come una struttura organizzata con forti gradi di invarianza e il comportamento degli organismi nel mondo riflette le costrizioni imposte dalle leggi di natura. L’informazione percettiva, attraverso la geometria della luce, rispecchia le invarianze dell’organizzazione del mondo: l’idea di Shepard è che nel corso della filogenesi tali invarianze siano state interiorizzate. L’interiorizzazione dei vincoli imposti dagli oggetti fisici ha permesso la nascita di una percezione “differita”: intesi in questo modo i meccanismi responsabili della generazione e trasformazione delle immagini sono soltanto un prolungamento dei meccanismi rappresentazionali implicati nella percezione visiva (Kosslyn, 1994).

L’imagery debate: pittorialisti e proposizionalisti

Il tentativo di risolvere la questione del che cos’è un’immagine mentale ha dato vita a quello che è stato definito “dibattito sulle immagini mentali”, tale querelle, sviluppatasi soprattutto negli anni ottanta, è però più che altro il risultato di una lunga serie di fraintendimenti e semplificazioni delle posizioni sostenute da quei ricercatori che più di tutti hanno contribuito all’avanzamento delle conoscenze sull’immaginazione visiva, ovvero Roger Shepard, Stephen Kosslyn e Zenon Pylyshyn.

Per proseguire il nostro dibattito bisogna comprendere se davvero lo studio di Shepard dimostra in modo inequivocabile che le immagini mentali hanno una struttura spaziale. Nella scienza cognitiva il tema della natura delle immagini mentali è uno dei più scottanti e controversi. Lo scontro più acceso riguarda due fazioni in lotta: i “pittorialisti” e i “proposizionalisti” (o descrittivisti). Secondo i pittorialisti le immagini sono simboli mentali che non possono essere ridotti a forme più astratte di rappresentazione senza perdere la loro peculiarità simbolica: in forza della loro natura essenzialmente figurale, esse raffigurano l’oggetto, o lo stato di cose, cui si riferiscono (hanno un rapporto di analogia con ciò che rappresentano). Per i proposizionalisti, invece, il carattere figurale delle immagini mentali è soltanto un epifenomeno: la loro natura, quale che sia la loro apparenza introspettiva, è sostanzialmente proposizionale (le immagini denotano l’oggetto e descrivono lo stato di cose cui rimandano).

Secondo Stephen Kosslyn, il rappresentante più illustre del pittorialismo, il fatto che la rotazione avvenga ad una velocità costante dimostra che “quando ruotiamo la rappresentazione mentale di un oggetto non imitiamo semplicemente il movimento reale degli oggetti: la mente sembra avere un qualche tipo di processo che si mette in moto e poi agisce a velocità costante” (Kosslyn, 1987). L’attenzione di Kosslyn è qui rivolta al meccanismo di elaborazione, più che al contenuto di ciò che viene elaborato. A questa idea si oppone strenuamente Zenon Pylyshyn (1984), l’esponente più intransigente dei proposizionalisti; egli sostiene che l’autonomia funzionale delle immagini è minata alla radice dalla loro “permeabilità” cognitiva: la manipolazione di un’immagine dipende in modo rilevante dal contenuto rappresentato piuttosto che da come viene rappresentato. L’incremento lineare del tempo nelle rotazioni delle immagini, ad esempio, è spiegabile per Pylyshyn utilizzando la nozione di “conoscenza tacita”: secondo tale nozione le conoscenze degli individui (ciò che essi sanno su determinati oggetti) intervengono in maniera decisiva nella elaborazione delle immagini. La rotazione risentirebbe quindi della conoscenza che il soggetto ha dell’oggetto. L’elaborazione delle immagini dipende dunque da quegli stessi processi di interpretazione (attribuzione di un contenuto) propri di qualsiasi altra forma di pensiero. Con lo spostamento dell’attenzione verso il contenuto, il carattere figurale delle immagini mentali diviene in questo modo un epifenomeno.

Come giustificare allora l’autonomia rappresentazionale delle immagini? Il vero dilemma dell’ipotesi pittorialista ruota intorno a questo punto: garantire il carattere figurale delle immagini senza ricorrere alla fallacia fotografica.Il primo passo del riconoscimento simbolico peculiare delle immagini mentali è la giustificazione della loro natura spaziale. Che cosa dice in più Kosslyn che ci fa propendere verso l’ipotesi pittorialista? Kosslyn (1994) sostiene che la differenza tra processi di elaborazione proposizionali e non-proposizionali (testimoniata dagli esperimenti sulle rotazioni) si spiega soltanto ammettendo la natura spaziale della rappresentazione pittorica:

“Per loro natura le immagini incorporano lo spazio (si ricordi che la “distanza” è un costituente intrinseco della rappresentazione). Così, se le rappresentazioni sottostanti all’esperienza di “avere un’immagine” sono pittoriche, allora la loro natura spaziale deve avere effetti su come le immagini sono elaborate. Se, al contrario, le rappresentazioni sottostanti sono proposizionali, non abbiamo alcuna ragione di aspettarci che la distanza influisca sui tempi di reazione”.

Il punto su cui focalizzeremo l’attenzione è l’idea che lo spazio sia una proprietà “intrinseca” delle immagini mentali. A giustificazione di questa ipotesi Kosslyn ha fornito ampie evidenze empiriche. Un esperimento classico è quello della mappa dell’isola (Kosslyn, Ball, Reiser 1978). I soggetti, posti di fronte al disegno di un’isola, dovevano memorizzare la disposizione di alcuni luoghi in essa raffigurati. Essi dovevano poi immaginare la mappa, esporsi mentalmente su un luogo prefissato e, alla richiesta dello sperimentatore, raggiungere mentalmente un altro luogo. I risultati sperimentali confermano l’ipotesi della conservazione dei rapporti spaziali nell’immagine mentale: l’incremento lineare del tempo in funzione della distanza attraversata dimostra che coprire mentalmente uno spazio nell’immagine è come coprire (percependolo) lo spazio fisico nella mappa reale. Che le immagini siano capaci di rappresentare lo spazio in maniera specifica è chiaramente provato dagli esperimenti: il punto decisivo è però capire se riescono a farlo in virtù di proprietà spaziali intrinseche o meno. Secondo Kim Sterelny (1986), i dati sperimentali “suggeriscono che l’immaginazione visiva rappresenta le relazioni spaziali, in qualche modo manifestando relazioni spaziali”: lo spazio, dunque, non è soltanto rappresentato da un’immagine mentale ma sembra essere un suo costituente intrinseco. Uno degli aspetti più interessanti del modello di Kosslyn è l’idea per cui le peculiari proprietà simboliche delle immagini mentali dipendono dal “mezzo” rappresentazionale: “Qualunque immagine figurativa deve prodursi in o su qualcosa. Non si può disegnare una figura senza qualcosa su cui disegnare, e le proprietà della carta, della tela, della lavagna o di qualunque mezzo si usi influiranno su tutto quanto vi disegneremo sopra” (Kosslyn, 1983). Così, anche l’immagine mentale di un fiore necessita, per avere certe proprietà, di un luogo su cui l’informazione possa configurarsi. La distinzione tra “medium” e “message” (Kosslyn, 1983) pone l’accento sul fatto che non tutto ciò che caratterizza un’immagine è riducibile al contenuto che la interpreta. La tesi della dipendenza dal mezzo permette di vedere sotto nuova luce il problema dell’interpretazione. Secondo i proposizionalisti, ciò che conferisce proprietà intenzionali alle immagini mentali è il modo in cui esse vengono interpretate. I pittorialisti, al contrario, insistono sulla capacità delle immagini mentali di veicolare una parte di informazione indipendente da una specifica interpretazione.

Il modello di Kosslyn e l’idea di “spazio funzionale”

Kosslyn (1983) ha proposto un modello teorico capace di superare le difficoltà di una concezione ingenua delle immagini mentali servendosi dell’analogia con il computer, spiegando anche i processi implicati di “generazione”, “ispezione” e “trasformazione”. Secondo il CRTP (Cathode Ray Tube Protomodel) produrre un’immagine nella mente è analogo a produrre una figura sullo schermo di un computer. Il punto importante è che per riprodurre figure sul monitor (riempiendo alcune caselle della matrice) non è necessario che l’informazione in memoria sia codificata in maniera figurale. Scrive Kosslyn: “Mettendo un punto in alcune caselle, si ottiene un’immagine. Questa distribuzione schematica di punti risulta chiaramente figurativa. Ma perché? Perché ha delle caratteristiche spaziali – distanze tra i punti, relazioni geometriche tra un punto e l’altro ecc. – che permettono allo spazio della matrice di rappresentare lo spazio reale: i suoi punti corrispondono ai punti sulla superficie di oggetti reali, in altre parole i punti vicini tra loro nell’oggetto risultano vicini anche nella matrice, i punti che nell’oggetto sono posti in diagonale lo sono anche sulla matrice, e così via”. La fecondità teorica di questa ipotesi è data dal fatto che non è necessario presupporre l’esistenza di “figure nella testa” per parlare di immagini mentali (e quindi nemmeno di un “occhio della mente” capace di guardarle). Pylyshyn, dunque, sbaglia ad attribuire ai pittorialisti la concezione ingenua delle immagini come fotografie mentali. Kosslyn ha provato che ci vuole del tempo a produrre un’immagine e che il tempo varia in funzione dei componenti delle immagini e della loro complessità: le immagini mentali non vengono ripescate dalla memoria ma vengono “generate” poco alla volta nel mezzo rappresentazionale. E’soltanto nella loro produzione che le immagini assumono caratteristiche figurali. Perché ciò avvenga sono necessarie tre cose: che nella memoria sia presente informazione sull’apparenza degli oggetti; che i processi di elaborazione siano capaci di trasformare l’informazione che di per sé non possiede caratteristiche spaziali in una configurazione sullo schermo; che esista uno spazio su cui l’informazione possa configurarsi. Il pittorialismo dell’ipotesi di Kosslyn si incentra sul terzo punto: il carattere figurale delle immagini nel computer dipende dalla configurazione sulla matrice bidimensionale dello schermo. Se dalla metafora del computer ci rivolgiamo ora ai processi mentali la domanda primaria che dobbiamo porci è: esiste un analogo dello schermo nel cervello? Nella prima fase del suo pensiero Kosslyn risponde a tale domanda nei termini della tesi funzionalista: non c’è bisogno di uno spazio reale nel cervello, è sufficiente l’esistenza di qualcosa che funzioni come uno spazio. D’altra parte, anche dentro il computer “non c’è nessuna matrice concreta che visualizza un’immagine sullo schermo: le caselle di un’ipotetica matrice sono invece rappresentate come singole voci nella memoria della macchina. Il calcolatore identifica questi elementi in modo tale che, a livello funzionale, è come se fossero distribuiti in una configurazione visiva” (Kosslyn, 1988). La natura funzionale del mezzo si ripercuote sulla natura delle rappresentazioni in esso prodotte (Tye, 1988): piuttosto che figure reali, le immagini mentali sono figure funzionali (più precisamente esse sono “quasi-immagini” che rappresentano in maniera “quasi-pittorica”). La difficoltà del modello di Kosslyn è mantenere insieme l’idea di spazio funzionale con quella di mezzo rappresentazionale. Benché egli attribuisca un ruolo decisivo al mezzo rappresentazionale, non è chiaro quale sia il ruolo di questo mezzo all’interno dell’ipotesi (l’analogia con il computer è fuorviante perché non è del tutto comprensibile quale sia, di fatto, il ruolo giocato dallo schermo). Se le proprietà del mezzo sono ridotte a proprietà funzionali, la natura spaziale del mezzo (la matrice bidimensionale del monitor) è inessenziale. Da un punto di vista funzionale, infatti, i processi di elaborazione possono continuare a interpretare spazialmente l’informazione, anche se il monitor è disattivato: la configurazione sullo schermo, in questo caso, è soltanto un epifenomeno. Ma se la configurazione sullo schermo non gioca alcun ruolo causale, come giustificare il ruolo del mezzo nella determinazione delle proprietà figurali – e dunque della proprietà simbolica – delle immagini mentali? Se la concezione funzionalista dello spazio conduce alla negazione del ruolo del mezzo nei processi rappresentativi, affinché possa rivendicare un ruolo effettivo, il mezzo deve possedere caratteristiche strutturali (intrinseche) che non possono esaurirsi nel suo ruolo funzionale. L’ipotesi del CRTP di Kosslyn funziona solo ammettendo che una matrice del genere esista davvero in funzione dei processi mentali.

La realtà psicologica e neurofisiologica del “visual buffer”

Immaginiamo un elefante. Ci basti di fissare lo sguardo sulla pancia e di immaginare di iniziare a camminare verso di lui. Ad un certo punto del cammino l’elefante coprirà l’intero campo visivo e se continuiamo a procedere, alcune parti come la coda e la proboscide inizieranno a “debordare”. Ma debordare da cosa? Una serie molto ampia di esperimenti (Kosslyn, 1983) ha permesso di verificare l’esistenza di uno “schermo mentale”. Kosslyn ha portato dati in favore dell’idea che, proprio come uno schermo televisivo, lo schermo interiore abbia una “grana” (che influenza la nitidezza dell’oggetto raffigurato), una zona di maggiore acuità nella parte centrale, oltre che forma e dimensioni determinate. Questi esperimenti si inseriscono nel quadro più ampio dell’ipotesi della comunanza strutturale e funzionale tra visione e immaginazione. Kosslyn ha chiamato “visual buffer” lo schermo mentale sul quale vengono generate le immagini mentali. Dati a sostegno del visual buffer provengono dalle ricerche sulla memoria di lavoro (Baddeley 1986). Mentre in passato gli studi hanno preso in considerazione e in esame soprattutto il componente linguistico (per il primato riconosciuto al linguaggio nei processi cognitivi), più recentemente si è scoperto il ruolo di un componente visivo-spaziale nel funzionamento di questa struttura della memoria a breve termine. Alan Baddeley (1986) ha distinto la memoria di lavoro in tre sottosistemi: un esecutivo centrale, un componente responsabile della ritenzione di informazione uditivo-verbale e un “taccuino” responsabile della ritenzione di informazione visivo-spaziale. E’quest’ultimo componente, naturalmente, a mettere in relazione gli studi sulla memoria con quelli sulle immagini mentali. La caratteristica più importante ai fini del nostro discorso è l’autonomia funzionale di questo sottosistema: l’indipendenza dai processi superiori di categorizzazione rende le rappresentazioni di questo componente molto simili a quelle dello stimolo percettivo. Nel taccuino visivo-spaziale, infatti, l’informazione “è ritenuta dal sistema con molte delle proprietà visive primarie intatte” (Logie, 1991): le immagini, in altre parole, a questo livello di elaborazione non sono ancora pienamente interpretate e categorizzate. Ciò che emerge da questi lavori è una concezione della rappresentazione dell’informazione visiva in cui vanno distinti diversi livelli di elaborazione. David Marr (1982) ha distinto le fasi primarie dell’informazione percettiva (incentrate sul soggetto, ovvero sull’immagine retinica determinata dal punto di vista), dalle fasi secondarie, più astratte, in cui l’oggetto esterno è rappresentato indipendentemente dal punto di vista del soggetto (incentrate sull’oggetto). Se è legittimo parlare del ruolo dei processi superiori di pensiero nelle fasi secondarie della visione (considerando la rappresentazione dell’oggetto distale come un caso di rappresentazione semantica), bisogna riconoscere l’indipendenza funzionale dei livelli primari della visione e l’eterogeneità delle rappresentazioni prodotte da questi diversi sottocomponenti. Si può sostenere che i dati in favore dell’esistenza del taccuino visivo-spaziale nella memoria di lavoro confermano l’idea del CRTP di Kosslyn. Sviluppiamo adesso più profondamente la teoria dello spazio funzionale affrontando l’argomentazione da un punto di vista neuroscientifico.

Nei suoi ultimi lavori Kosslyn abbandona la metafora del calcolatore rivolgendosi allo studio neurofisiologico del cervello; questo cambiamento gli permette di conseguire risultati positivi al fine di precisare il ruolo e la natura del mezzo rappresentazionale e di scoprire che “ il cervello sembra avere una struttura che gioca un ruolo simile alla matrice del modello”. Per dimostrare ciò egli utilizzò dati prodotti da Tootell et al. (1982)in un importante esperimento; gli autori somministrarono ad un macaco del 2-desossiglucosio radioattivo, posero la scimmia di fronte ad un bersaglio di linee radiali luminose e, subito dopo la percezione dello stimolo, sacrificarono l’animale e svilupparono (come si fa con il materiale fotografico) la sezione del cervello corrispondente alle aree visive primarie. La sostanza radioattiva (annerendo il materiale fotosensibile) permise agli sperimentatori di individuare le cellule più attive durante la percezione dello stimolo. I risultati confermarono l’ipotesi dell’esistenza di una matrice spaziotopica nel cervello: i neuroni della corteccia visiva primaria (area Vı), organizzati in una struttura che ripete lo spazio della configurazione retinica, preservano dunque “le proprietà spaziali delle immagini che colpiscono la retina” (Kosslyn, 1994). Il carattere retinotopico della corteccia visiva primaria è stato riscontrato anche nell’uomo con alcuni risultati PET (Kosslyn,1994), la tomografia ad emissione di positroni che permette la visualizzazione in tempo reale delle aree del cervello durante la loro attivazione. Cosa abbiamo guadagnato scoprendo che nella corteccia visiva primaria esiste una matrice spaziale? Una delle prime precisazioni da fare è quella di non confondere la configurazione retinotopica delle aree visive primarie con l’immagine visiva (non bisogna confondere il mezzo con la rappresentazione). L’immagine visiva è una rappresentazione mentale della scena: essa è il risultato dell’attività di processi superiori di elaborazione dell’informazione e , come tale, non può essere identificata con il substrato fisico che implementa tali processi. La corteccia visiva primaria gioca, allora, un ruolo nel rappresentare alcune delle proprietà delle rappresentazioni coinvolte? La natura fisica spaziale del mezzo ha un ruolo nei processi di elaborazione del mental imagery? In altre parole è necessario capire se l’organizzazione topografica di alcune aree del cervello sia soltanto un epifenomeno dello sviluppo cellulare o se, invece, abbia un ruolo causale nei processi di elaborazione dell’informazione. Blakemore(1994) a tale proposito scrive: “Ci sono aree sensoriali organizzate topograficamente nel cervello. Alcune di esse hanno coordinate spaziali che mantengono relazioni non semplici con il pattern dei recettori sensoriali. Perciò il cervello contiene immagini del mondo esterno e sembra probabile che queste immagini abbiano un valore funzionale nell’analisi del cervello dei segnali sensoriali”.

Anche Kosslyn e Koenig le mappe cerebrali svolgono un ruolo attivo nei processi di calcolo: se consideriamo le reti neurali come un modello sufficientemente adeguato di simulazione dell’attività cerebrale, abbiamo una prova empirica del fatto che “una matrice usata come una struttura di input spazialmente organizzata fornisce input vantaggiosi alle reti che classificano forma e localizzazione” (Kosslyn, Koenig 1992). Abbiamo parlato fino ad adesso della rappresentazione dell’informazione proveniente dalla percezione visiva. Ma cosa dire delle immagini mentali? Quali prove testimoniano che lo stesso mezzo di rappresentazione sia attivo nell’immaginazione? Sembra che immaginazione e visione condividano lo stesso medium rappresentazionale. Secondo Martha Farah (1984), ad esempio, “generare un’immagine consiste nell’usare informazione della memoria a lungo termine per attivare selettivamente le regioni dello stesso medium rappresentazionale spaziale all’interno del quale gli stimoli sono codificati al primo stadio dell’elaborazione percettiva”. Anche Kosslyn è della medesima opinione: “Le aree della corteccia configurate topograficamente ricevono connessioni non solo dalle aree visive inferiori, ma anche da quelle di livello più alto. E’così possibile che un’immagine mentale visiva sia un pattern di attivazione nel visual buffer determinato dall’informazione in memoria, piuttosto che da quella proveniente dagli occhi (che provoca pattern ci attivazione durante la percezione)”.

Tecniche di misurazione dell’attività cerebrale come la PET hanno portato prove sperimentali convincenti in favore dell’ipotesi secondo cui la corteccia visiva primaria (lobi occipitali) è direttamente implicata in compiti di immaginazione visiva (Kosslyn, 1994). Qual’è il risultato di tutto questo ai fini delle proprietà delle immagini mentali? Secondo la proposta in esame dello schermo di Kosslyn (CRTP), alla luce di conferme neurofisiologiche, abbiamo motivi più convincenti per comprendere cosa renda le immagini strutture simboliche capaci di conservare, diversamente dalle proposizioni, le relazioni spaziali della scena raffigurata. Come afferma Michael Tye (1988) “Che i neuroni in regioni differenti del cervello siano organizzati in rappresentazioni topografiche, porta alla congettura che lo stesso sistema dell’immaginazione impieghi tali rappresentazioni, quindi sembra esserci un senso più forte per sostenere che le immagini mentali sono quasi-figurali”.

Facciamo così riferimento ad un pittorialismo più forte di quello fondato sull’idea di spazio funzionale, attribuendo alle immagini proprietà spaziali intrinseche senza ricorrere alla fallacia fotografica. La natura spaziale intrinseca è ciò che permette alle immagini di rappresentare lo spazio analogicamente rendendole simboli affatto distinti dalle proposizioni.

Natura visivo-spaziale delle immagini mentali: neuropsicologia della visione e dell’immaginazione.

Come abbiamo visto in precedenza con la critica all’“occhio della mente” e all’ipotesi delle immagini mentali come “figure nella testa”, non è legittimo considerare le immagini mentali come reali oggetti della visione, in questo paragrafo cercheremo di provare che la metafora del “vedere” usata dal senso comune conserva alcune importanti verità. Nel tentativo di fornire una possibile spiegazione del perché noi tutti associamo la particolare esperienza soggettiva che accompagna le immagini mentali a quella della visione, cercheremo di difendere l’idea secondo cui le immagini mentali sono essenzialmente “viste” piuttosto che soltanto “comprese” o “interpretate”. Sosterremo quindi l’ipotesi più forte della tesi pittorialista: quella secondo cui le immagini mentali hanno proprietà visive, oltre che spaziali. Questa ipotesi passa per la difesa della stretta relazione tra percezione visiva e immaginazione mentale.

A prestar più attenzione al protocollo sperimentale appare chiaro che anche un altro tipo di proprietà delle immagini mentali erano coinvolte nel processo di immaginazione mentale e ricostruzione immaginativa: quelle riguardanti l’“apparenza” degli oggetti, ovvero caratteristiche come la forma, il colore, il gradiente di tessitura. Così anche le caratteristiche visive sembrano giocare un ruolo causale nell’immaginazione mentale. Il dibattito contemporaneo sulla natura delle immagini mentali vede contrapporsi due nuovi schieramenti (tutti e due critici nei confronti dell’ipotesi proposizionalista). I pittorialisti, che da adesso chiameremo “minimalisti”, sostengono che ciò che caratterizza in maniera essenziale le immagini mentali è la loro natura spaziale: lo spazio è rappresentato in una forma astratta comune alla visione, al tatto e, anche se in misura minore, all’udito – le proprietà visive delle immagini mentali sono epifenomeni. I pittorialisti in senso proprio, al contrario, continuano a sostenere il ruolo funzionale delle proprietà visive delle immagini mentali. La domanda chiave attorno a cui ruota tutta la questione sembra dunque essere: le immagini mentali hanno proprietà soltanto spaziali o dobbiamo attribuire loro anche proprietà visive? Gli attacchi di maggior rilievo al carattere visivo delle immagini mentali (in favore della sola natura spaziale) provengono dagli studi sperimentali su ciechi congeniti: quali sono le prestazioni in compiti di immaginazione di soggetti che non hanno mai avuto esperienze visive? Uno dei dati maggiormente utilizzato dai pittorialisti a conforto della loro ipotesi è quello proveniente dagli esperimenti sulle rotazioni mentali. Secondo alcuni autori tali risultati, pur essendo decisivi nella critica all’ipotesi proposizionalista delle immagini mentali, non sono sufficienti a dimostrare la loro natura pittorica. Antonietti (1998) scrive: “Il paradigma della rotazione mentale attuato con soggetti vedenti non permette di stabilire se le immagini mentali siano di tipo spaziale – cioè includano soltanto informazioni circa le posizioni degli elementi rispetto ad uno schema di riferimento – o siano di tipo visivo, cioè includano anche ulteriori aspetti percettivi come colore, luminosità e tessitura”. Per chiarire quest’ultima questione, compiti di rotazione mentale sono stati sottoposti a soggetti ciechi dalla nascita adattando il famoso esperimento di Shepard e Metzler sulla rotazione mentale di oggetti tridimensionali. L’intento degli autori, Marmor e Zaback (1976), che attuarono questo esperimento, era dimostrare la possibilità di ruotare un oggetto nella mente indipendentemente dalla rappresentazione delle sue caratteristiche visive. Come nel caso di Shepard il tempo di risposta aumentava linearmente all’aumentare dell’angolo di rotazione allo stesso modo per i soggetti vedenti e per i ciechi congeniti. La conclusione dei due autori fu che “senza usare immaginazione visiva, i ciechi sembrano organizzare le proprietà delle forme tattili in una rappresentazione spaziale che, come le immagini visive, può essere trattata in modo simultaneo e che è abbastanza specifica da rendere possibile la discriminazione richiesta”. Se le immagini mentali visive non sono la sola forma di rappresentazione percettiva, qual’è la relazione tra le rappresentazioni provenienti dalla percezione visiva e quelle provenienti dalle altre modalità sensoriali? Il fatto che i ciechi riescano a produrre rappresentazioni mentali dello spazio dimostra forse l’esistenza di una forma generale della rappresentazione percettiva? E quindi una plausibile domanda potrebbe essere: quanto sono visive le immagini mentali visive? Possiamo sostenere a sostegno della tematica sollevata che non è necessario aver avuto un’esperienza visiva per avere una rappresentazione con proprietà visive; la visione è infatti un sistema complesso , molti ciechi hanno danni soltanto ai centri periferici del sistema visivo, mentre conservano sufficientemente integre sia le strutture che i processi di elaborazione dei livelli più alti. E se fosse possibile attivare questi centri visivi superiori indipendentemente dalla stimolazione retinica da parte della luce? Kosslyn spiega: “Poiché i ciechi non possono avere nella memoria a lungo termine tracce derivate dall’esperienza visiva, dobbiamo pensare che tali immagini siano il risultato della costruzione di un sistema attivo di memoria (memoria di lavoro visuo-spaziale) di una rappresentazione con proprietà visuo-spaziali elaborata sulla base di informazioni acquisite attraverso modalità non visive.”

Secondo Martha Farah (1988) la possibilità di eliminare questo aut-aut cercando di mostrare che le due proprietà, quelle visive e quelle spaziali delle immagini mentali, non si escludono mutuamente, è da ricercare nella neurofisiologia. Un buon punto di partenza ci è fornito dall’analisi del sistema visivo. Una prima differenziazione funzionale fondata su una precisa distinzione anatomica è quella dei sistemi what e where proposta da Ungerleider e Mishkin (1982) e ripresa in seguito da molti autori (Farah 1988, Kosslyn 1994). Le aree della visione fanno riferimento a due grossi sistemi corticali: Il sistema ventrale scorre dall’area OC (corteccia visiva primaria) attraverso l’area TEO (zona occipito-temporale) al lobo temporale inferiore. Questo sistema è stato identificato con l’analisi della forma (“che cosa”). Il sistema dorsale scorre quasi direttamente dall’area circumstriata OB verso OA e poi arriva a PG (nel lobo parietale). Questo sistema è stato identificato con l’analisi della localizzazione (“dove”).

I due sistemi neurali sono caratterizzati da ruoli funzionali distinti e complementari: il sistema ventrale “what” si occupa della codificazione e dell’elaborazione dell’apparenza visiva delle cose (proprietà di superficie degli oggetti come forma e colore); il sistema dorsale “where” codifica e rappresenta le proprietà spaziali degli oggetti (localizzazione, orientamento ecc.). La realtà neuropsicologica dei due sistemi funzionali è provata dai deficit che si verificano a seguito di danni cerebrali nei due sistemi descritti. Una lesione ad uno delle due sistemi produce disturbi selettivi: i soggetti con danni al sistema dorsale sono capaci di riconoscere un oggetto, ma non sono capaci di indicare o di riferire la sua collocazione nello spazio; i soggetti con danni al sistema ventrale presentano, viceversa, disturbi di “agnosia visiva”, sanno indicare dove si trova l’oggetto ma non sono capaci di riconoscerlo. Farah e collaboratori (1988) hanno analizzato il caso di L.H., un paziente di 36 anni, con danni al sistema ventrale causati da un incidente automobilistico all’età di 18 anni. Sebbene le capacità intellettuali generali fossero integre, L.H. mostrava difficoltà in compiti di riconoscimento visivo. Sottoposto a compiti di immaginazione mentale distinti in visivi e spaziali (questi ultimi suddivisi in trasformazioni e in localizzazioni), L.H. mostrò una chiara dissociazione tra le prestazioni: la prestazione era al di sotto della norma in compiti di immaginazione visiva e entro il range di normalità, in compiti di immaginazione spaziale. La risposta alla domanda di Farah (1988) “Is visual imagery really visual?” può essere affermativa vista la duplice natura delle immagini mentali visive: “La rappresentazione in immagini, come la rappresentazione percettiva, non è una facoltà indifferenziata, ma consiste piuttosto di almeno due tipi di capacità rappresentazionali, visive e spaziali. Così, l’argomento se l’immaginazione mentale sia visiva o spaziale è basato sulla falsa premessa che sia l’una oppure l’altra; di fatto, ognuno dei tipi di rappresentazione esiste ed è necessario per una differente sottoserie di compiti” (Farah 1988).

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