IO e TU (2° parte)

(Martin Buber by Danilo Vespertini)

appunti di Serena Mordini


L’obiettivo essenziale che emerge da quest’opera di Buber è quello di dare una risposta al problema dell’uomo, visto come  riflessione su se stesso e messa in discussione di se stesso; problema che emerge necessariamente da epoche storiche di crisi.

Buber contrappone, infatti, le epoche di crisi (chiamate “senza casa”), alle epoche “della casa”. Solo durante le epoche di crisi, che sono quelle in cui l’uomo perde i suoi riferimenti cosmici, religiosi, sociali e politici, l’uomo è costretto a porsi il problema di se stesso.  

Le epoche di crisi e quelle della casa hanno trovato un’alternanza nella storia fino alla rivoluzione copernicana. Da quel momento in poi, secondo Buber, inizia l’epoca moderna caratterizzata  da una situazione completamente nuova e cioè dall’impossibilità per l’uomo di uscire da una condizione di precarietà ed estraneità al mondo definitive e tale da non permettere l’alternarsi ciclico delle epoche senza casa e della casa. Per cui l’uomo, dalla rivoluzione copernicana in poi, non ha più un’immagine del mondo come casa, esiste quindi una lacerazione tra la possibilità di concepire il mondo e l’impossibilità di viverci.

La condizione di solitudine, proprio perché la più radicale che l’uomo abbia mai vissuto, è la più favorevole a riproporre il problema dell’uomo. Con ciò Buber non intende sostenere né che la solitudine sia la soluzione al problema dell’uomo, né che essa sia una condizione insuperabile.

La solitudine, secondo Buber è solamente la condizione per mezzo della quale l’uomo può porsi il “problema dell’uomo”, può, cioè, pensare a se stesso. Infatti, nella situazione in cui l’uomo non ha occasione di sostenersi appoggiandosi al suo rapporto conciliato col mondo, allora non può che mettersi in discussione.

La risposta al problema dell’uomo consisterebbe secondo Buber nella relazione interpersonale e comunitaria. Individualismo e collettivismo sono infatti entrambe strade senza sbocco; la prima in quanto comprende per l’uomo la possibilità di porsi in discussione, ma non di superare la solitudine; la seconda in quanto fa sentire l’uomo parte di qualcosa, rendendolo però incapace di porsi il problema di sé, per cui la via autentica è quella appunto della relazione tra-uomo-e-uomo, ossia dell’incontro con l’altro, della relazione istituita “tra” l’io e il tu, in cui non si perde nessuno dei due elementi che sono persona.

“La relazione non è un atteggiamento psicologico, interno all’io, né un fenomeno cosmologico, proprio di un mondo che contiene gli individui; essa è una struttura ontologica originaria: è una realtà non compresa nell’io, né comprendente l’io, ma effettivamente tra l’io e il tu […]
La relazione è evento, perciò non ha durata, ma avviene nell’attimo”  (Cif. pag. 15)

Parte seconda

Come aveva già sapientemente anticipato Andrea rispetto alla prima parte del libro, anche qui Buber riconosce la relazione come strumento fondamentale per la creazione di senso nella vita dell’uomo e ne parla come un atto di fede, inesprimibile e sperimentabile solo nell’attimo, in quanto “evento” fuori dal tempo e dallo spazio. La relazione è, per Buber, semplicemente presenza, è l’esserci.

Partendo da una concezione biblicamente impregnata, Buber sostiene la relazione con il Tu Eterno, che non è altro che la definizione che Buber dà di Dio, come quella fondamentale, ma essa si ritrova anche come relazione pura nell’incontro con l’altro.

Senza di essa la vita si riduce ad un mero rapporto io-esso col mondo. Tale rapporto comprende due concetti fondamentali: l’esperire, che rende tangibile il mondo, e l’utilizzare, fondamentale per la conservazione, la facilitazione e la sopravvivenza dell’uomo stesso nel suo mondo.

Infatti è proprio attraverso la relazione oggettuale di cui l’individuo fa esperienza sul piano ontogenetico e filogenetico, oltre a quello dell’eredità culturale, che può avvenire il processo di sviluppo ed espansione della conoscenza e della classificazione delle cose. L’accrescimento della conoscenza non potrebbe sussistere se non si considerasse il mondo come oggetto finito.

D’altra parte però la formazione delle capacità di esperire e utilizzare, tipiche appunto di un rapporto io-esso col mondo, va a scapito della forza di relazione dell’uomo, senza la quale l’uomo non può vivere nello spirito.
L’obiettivo è allora quello di recuperare tale forza di relazione.
Il vivere nello spirito trascende dall’individuo ed è la relazione, l’individuo si inserisce nel flusso vitale continuo come presenza determinata da quello.

 Solo il silenzio nei confronti del tu, il silenzio di ogni linguaggio, la tacita attesa della parola non ancora formata, non ancora separata, non ancora espressa, lascia libero il tu, è con lui nella situazione in cui lo spirito non si manifesta, ma è. Ogni risposta avvolge nel mondo dell’esso il tu. Questa è la melanconia dell’uomo, e questa è la sua grandezza” (pag. 86)

Nel rapporto io-tu l’uomo trova il senso di ciò che inevitabilmente diventerà esso in un’alternanza di io-tu, io-esso continua. Il rapporto io-tu, infatti, non è permanente, ma è una sorta di miracolo momentaneo senza il quale non c’è presenza, non c’è essenza, ma solo oggettualità.

Anche la conoscenza quindi non è che legge dedotta successivamente all’apparizione. L’essere sta, invece, nell’apparizione stessa. Come spiegano bene le parole del commentatore Poma:

“questo progressivo aumentare della massa dell’esso è, in sintesi, per Buber, la causa della crisi dell’uomo contemporaneo perché la massa si frappone tra l’uomo e Dio determinando l”eclissi” di Dio e impedendo all’uomo di rispondere al suo appello, e di conseguenza rende sempre più ardua anche la relazione dell’uomo con gli altri uomini, con la natura e con le essenze spirituali”

Il concetto di relazione io-tu permea, nella teoria di Buber, ogni ambito di vita e l’obiettivo è sempre quello di un’integrazione funzionale della relazione, in cui si manifesta la presenza, nel mondo oggettivo/esso.

Tale integrazione è auspicabile anche per quanto riguarda la distinzione che l’uomo ha stipulato tra istituzioni, territorio dell’esso che costituisce ciò che è “esterno”, in cui domina l’utilizzare e l’agire e sentimenti, territorio dell’io, ciò che è “interno” in cui si vive e ci si riposa dalle istituzioni.

Dal punto di vista buberiano le istituzioni non producono alcuna vita pubblica, né i sentimenti producono alcuna vita personale. Ciò che crea la vera comunità che arricchisce e dà senso alla vita umana non è il fatto che le persone nutrano sentimenti reciproci, ma piuttosto il fatto che 1) tutti siano in reciproca relazione vivente con un centro vivente e 2) tutti siano tra loro in una vivente relazione reciproca.

“ La volontà d’uso e la volontà di potenza dell’uomo agiscono naturalmente e legittimamente fintanto che sono congiunti alla volontà di relazione dell’uomo e ne sono sostenute. Non c’è alcun istinto malvagio finché l’istinto non si stacca dall’essere. L’economia, dimora della volontà d’uso, e lo stato, dimora della volontà di potenza, partecipano alla vita fintanto che partecipano allo spirito”

“Le strutture della vita collettiva dell’uomo traggono vita dalla potenza di relazione, che ne penetra i membri, e traggono forma corporea dal legame di questa potenza nello spirito”

“solo per la presenza dello spirito tutto ciò che è lavorato e posseduto, pure rimandendo consegnato al mondo dell’esso, può trasfigurarsi in ciò che sta di fronte e nella rappresentazione del tu”

Buber fa un magnifico discorso rispetto a quello che personalmente ho assimilato al concetto di libero arbitrio. Se l’uomo, infatti, si rende libero dal concetto di causalità, che appartiene prettamente ed esclusivamente al mondo dell’esso, abbandonandosi invece ad un ascolto di se stesso e della relazione (che non è altro che l’effetto che la relazione e la contingenza suscitano) può finalmente “decidere”, fare una scelta…infatti:

 il diavolo, non sarebbe colui che decide contro Dio, ma colui che eternamente non sa decidersi”

Solo chi realizza la libertà di scelta può andare incontro al suo destino perché si prende la responsabilità di ciò che ha scelto con la chiarezza di essere stato a contatto con ciò che c’era e con la consapevolezza e il dolore che nella scelta ha inevitabilmente lasciato qualcosa. In questo si manifesta il mistero: nello scoprire “l’azione che chiama”, ma anche “nel fatto che non riesca a compierla come desideravo”

E’ l’azione, quindi, che chiama…. In questo concetto Buber non esclude quello di responsabilità della scelta, ma vuole invece evidenziare come l’uomo per scegliere consapevolmente, una volta abbandonatosi alla relazione con un tutto di cui, peraltro, è perennemente parte, può fidarsi di ciò che arriva, che non è altro che ciò che Buber definisce destino.

In un mondo completamente privo di Tu, in cui non c’è più presenza, la causalità prende il sopravvento sfociando nella fatalità, che è la condizione in cui l’uomo non sceglie.

“Fintanto che l’uomo possiede quell’atto essenziale nella propria vita, mentre agisce e mentre soffre, fintanto che entra egli stesso nella relazione: per tutto questo tempo è libero e quindi creativo” (E poi ditemi se questa non è Gestalt?)

Anche le norme sociali, in cui ogni individuo è avviluppato, non sono che ostacoli a quella che Buber chiama “iniziazione al mistero” tramite il quale, invece, è possibile non andare contro alle norme suddette, ma piuttosto volgerle a strumento comodo per l’uomo che diventa uomo libero.

Questo pezzo è bellissimo e ve lo riporto pari pari:

“L’uomo libero è colui che esercita la volontà senza arbitrio. Crede nella realtà, vale a dire che crede nel legame reale della dualità reale io-tu. Crede che vi sia una destinazione, e crede che questa abbia bisogno di lui: essa non lo conduce, lo aspetta; egli le deve andare incontro: pur non sapendo dove sia, sa che deve mettersi in cammino con tutto il suo essere. Le cose non andranno secondo i suoi propositi; ma qualsiasi cosa avverrà, avverrà soltanto quando si proporrà ciò che è capace di volere

Ci vuole fede, quindi; fede che qualcosa avverrà; fede che consenta di abbandonarsi alla relazione col mondo senza la garanzia di successo, né di sicurezza.
Ma non è abbastanza: se l’uomo non è consapevole di essere capace di volere qualcosa, non può ottenere niente.

La condizione di solitudine esistenziale, di estraneamento dal mondo delle cose quando questo ci rende consapevoli che la vita condotta fino a quel momento è priva di senso, è la condizione potenzialmente riscattante; è la condizione più funzionale a meditare sull’esser caduti, sull’io privato di realtà e sull’io reale, da qui può aver inizio la conversione.

Buber riflette poi sul concetto di IO, infatti che l’Io viva nella relazione o al di fuori di essa, rimane comunque garante di sé nella propria autocoscienza, ma l’io della parola fondamentale io-tu è diverso da quello della parola altrettanto fondamentale io-esso.

Infatti l’io della parola io-esso si manifesta come individualità e diventa cosciente di sé come oggetto (soggetto dell’esperire e dell’utilizzare). L’io della parola io-tu si manifesta come persona e diventa cosciente di sé come soggettività (senza un genitivo che ne dipenda).

L’individualità si manifesta distinguendosi da altre individualità, mentre la persona si manifesta solo nella relazione con altre persone. L’una è la forma spirituale della separazione naturale, l’altra del legame naturale

“Lo scopo della relazione è il suo stesso essere, cioè il contatto con il tu. Poiché a contatto con ogni tu ci sfiora un soffio della vita eterna”

“ Chi è  nella relazione è parte di una realtà, cioè di un essere che non è né semplicemente in lui, né semplicemente fuori di lui.  Ogni realtà è un effetto di cui sono parte, senza poterlo far mio”

L’io-tu è quindi essenziale a dare senso, ma solo attraverso l’autocoscienza propria della relazione io-esso, in cui l’individuo si vede come oggetto, l’io può diventare consapevole della relazione io-tu, che in questo modo, non si perde, ma rimane come segno e come seme nell’uomo. Nell’autocoscienza l’io diventa consapevole del legame e contemporaneamente della separazione dal tu.

“La persona diviene consapevole di se stessa come di ciò che partecipa dell’essere, come di ciò che è insieme agli altri, quindi come di un ente. L’individualità diviene consapevole di sé come ente che è così e in nessun altro modo. La persona dice “IO SONO”; L’individualità dice “SONO COSI’”

Naturalmente l’individualità, che ci caratterizza proprio perché ci distingue dagli altri, allontana dall’essere. Ciò non significa che tramite la sua individualità la persona rinunci al suo essere, al suo essere in modo diverso dagli altri, ma anzi, come nella teoria paradossale del cambiamento, è proprio attraverso il suo riconoscersi individuo che la persona inizia a comprendere l’essere.

La cosa fondamentale è che però l’individualità non diventi uno strumento per la manifestazione di un’unicità costruita come vanto. In questo caso essa non è partecipe di alcuna realtà.

Mi viene da commentare che in effetti così assume un grande senso il nostro percorso personale di terapia, in cui alla fine non facciamo che conoscere noi stessi con il nostro io della parola io-esso, che ci consente di osservarci come soggetti del nostro agire, per poter poi abbandonarsi, consapevoli di come siamo, nella relazione io-tu, senza vecchi automatismi che ci rendono sfiduciati nei confronti del mondo e di ciò che inevitabilmente accade.

“A che cosa appartenga un uomo e dove conduca il suo cammino si decide dopo il suo dire io”