La danza della realtà

(Francesco Musante)
Un antico detto sufi recita: “Se hai qualcosa da dire prova a dirlo all’intera umanità. Se non riesci a dirlo al mondo prova a dirlo al tuo paese. Se non ci riesci prova a dirlo alla tua città. Se non riesci a dirlo alla tua città dillo al tuo quartiere. Altrimenti alla tua famiglia. Se non riesci a dirlo alla tua famiglia prova a dirlo a te, al tuo essere, l’importante è che tu lo dica”. Così A. Jodorowsky ha rotto il ghiaccio a Roma, nella sala dove ha presentato il libro La danza della realtà. 

L’eclettico personaggio è arrivato e come prima cosa si è preoccupato di spostare il tavolo che la direzione aveva messo a disposizione per l’occasione, permettendosi così di inscenare una presentazione del libro in modo tale che risultasse più vissuta, più interattiva, di scambio, insomma uno spettacolo senza limiti a questa parola. Col detto sopra ricordato non ha fatto altro che impattare l’incontro cercando di suggerire uno dei tanti imponenti messaggi che si possono ricavare dal libro, in questo caso un messaggio che sottolineasse l’importanza dello spazio mentale vissuto in modo tutt’altro che scontato e sconosciuto: l’uomo, in bilico tra coscienza e inconscio, deve riuscire con la forza della prima a rendersi alleato il secondo e così poter esplorare la sua complessità totale e saziarsi di un lavoro così immensamente fertile: se ha qualcosa da dire, e ce lo ha, deve trovarlo e dirlo. 

La danza della realtà è un libro perlopiù autobiografico che narra le vicissitudini e le relative sfumature emotivo-affettive d’una vita ch’è riduttivo definire semplicemente fuori dal comune; il libro, nel camminare del lettore fra le pagine ipnotizzanti, non fa che accrescere pian piano quello che in fondo altro non è che un inno alla vita come unica e irripetibile possibilità di prendere e gustare tesori anche dal buio delle sofferenze, dei traumi, delle incomprensioni, di tutto ciò che insomma può frenare l’andatura o avventatamente dare l’idea di essere spacciati o fuori luogo. Jodorowsky narra la sua vita senza riserve e limitazioni con l’intento, sorseggiato sin dall’inizio, di creare quelle fondamenta per motivare e giustificare un’esistenza dedicata alla comprensione e alla partecipazione dell’anima umana e dell’anima cosmica. La lettura diparte dal racconto dell’infanzia sofferente e dilaniante, contornata e prodotta da una figura paterna stalinista, da una madre passiva e chiusa nelle proprie sofferenze tramandate da generazioni, dal confronto schiacciante con la bellissima sorella prediletta dai genitori. L’infanzia di Jodorowsky è così fatta di un’introversione cronica e di domande troppo grandi per un bambino e il modo in cui egli la racconta al lettore non scorda mai di ricordare quanto tuttavia sia stata la base per una crescita filosofica e spirituale che tutt’oggi ringrazia proprio basandosi sulla forma di sofferenza che gliel’ha permessa. Nei primi capitoli si respira la forza della non accettazione a scuola, del bullismo patito, così come quella non accettazione nell’ambito familiare soprattutto capitanato, appunto, dall’anaffettività provante potente e aggressiva del padre: uno dei momenti in cui Alejandro ancora bambino impara a teorizzare circa questa distanza ruvida paterna è quella notte in cui, colmo tanto di motivazione quanto di terrore, decide di entrare in camera dei suoi genitori dormienti per osservare il membro del padre e per accorgersi così di quanto sia più piccolo del proprio. La forza con la quale racconta questo come altri particolari episodi è la potenza d’un’età dove si ricercano spiegazioni a partire da comparazioni visive colme di ‘edipicità’. 

Come dicevamo, il libro è un’autobiografia da leggere come il romanzo d’una vita sorprendente, come il romanzo d’un viaggio esistenziale testardo verso la Verità, l’Essenza. Dalla poesia al teatro passando per l’ausilio superegoico dei burattini e della pantomima, dal teatro al taoismo Zen, dall’LSD alle esperienze messicane con sciamani fino a giungere alla convinzione che l’arte è tale se guarisce e così proiettarsi colmo di arte, psichismo e amore per la vita stessa verso la creazione di quella tecnica da lui denominata psicomagia, una pratica che restituisce all’arte e all’immaginazione la loro primitiva funzione curativa dell’animo umano. 

La parte centrale del libro si sofferma non poco sulle esperienze dei sogni lucidi cercate e create da Jodorowsky nel corso di alcuni anni per sfamare e dar corpo a quella che lui credeva fermamente essere l’utilità di un’alleanza con la parte inconscia umana e non solo, cosmica. Il modo in cui racconta tali esperienze è minuzioso e attento ed è preludio di tutta la teoria alla base della psicomagia. La realtà dell’inconscio è condotta dai simboli: se l’uomo impara ad acquisire una qualche coscienza immerso nel mondo onirico non fa che allargare l’attività esplorativa del sé e può farlo nel momento in cui si rende ferreo della consapevolezza che il mondo onirico, con i suoi simboli, non può nuocere qualora lo si affronti prendendolo come spazio ove il limite della veglia non può pregiudicarci nulla. I capitoli sui sogni lucidi sembrano quasi un manuale per apprenderne la tecnica, ma ancor di più occorrono per dare un altro messaggio, ossia che l’inconscio vuole spazio e lo ottiene in modo, soprattutto, metaforico: secondo Jodorowsky le malattie sono tutte metafore capitanate dalla vita inconscia che ottiene forma trasformandosi nei disagi o nella malattia somatica. Gli atti psicomagici che A.J. prescrive ai suoi pazienti sono gesti che parlano direttamente il linguaggio dell’inconscio nella loro esecuzione e lo fanno colmi di simboli e contenuti metaforicamente onirici che l’eclettico cileno ritrova per i pazienti in una sorta di trance e con l’utilizzo dei tarocchi. 

“Come se l'inconscio, sapendo che ero aperto a tutti i suoi messaggi e non avevo nessuna intenzione di difendermi o di modificarlo, fosse diventato il mio socio.” 

Questo A.J. dice in riferimento all’utilità dello sforzo ch’ha condotto nel portarsi lucidamente nei sogni e lo fa peraltro anche per addestrare il lettore a quella che poi è l’essenza dell’attività psicomagica: l’atto psicomagico parla a quella parte inconscia che metaforicamente s’è espressa con la malattia psico-fisica e, dandole soddisfazione e appagamento, riesce ad azzerare la disconoscenza tra conscio e inconscio che ha recato il disturbo o la malattia all’individuo. Come non ricordare qui le pagine a dir poco ipnotizzanti che Jodorowsky dedica alle esperienze Zen e soprattutto al racconto della sua ‘amicizia’ con la vecchia messicana sciamano Pachita, la quale ricorda tanto qualche ciarlatano d’oggigiorno ma che al contempo impersonifica quella forte impaurita verità che tutti siamo capaci di proiettare anche in fatti e guarigioni in tal modo impensabili e impossibili. Sta di fatto che, lui stesso dice: 

“per essere stregoni o sciamani bisogna abitare in un mondo in cui la superstizione diventa realtà. Per quel che mi riguarda, non credevo abbastanza alla magia primitiva per diventare un guaritore [..] Mi trovavo tuttavia nella condizione mentale giusta per imparare qualcosa che in seguito avrei potuto utilizzare nel mio contesto; per esempio, il modo di utilizzare gli oggetti simbolici al fine di produrre determinati effetti sul prossimo; o come rivolgersi direttamente all’inconscio usando il suo linguaggio, attraverso le parole o le azioni.” 

Non sappiamo se le sue psicoterapie magiche funzionino (lui avverte: “affinché ottengano l'effetto sperato, è necessario crederci con tutte le forze…”), d'altronde per le sue consulenze non si fa pagare, ma, in riferimento alla presentazione di questo libro, una cosa è più che certa: assistere a una delle sue esibizioni fa sentire decisamente meglio come peraltro immergersi in uno dei suoi libri.