Sul gelo e il disgelo

(Alberto Contestabile)

appunti di Andrea Migliarini


Nel T-group c’è comunemente una fase chiamata di ‘disgelo’, che rappresenta un po’ il passaggio da qualcosa di fisso e freddo a qualcosa di caldo e nuovo. E’ una fase sia molto individuale che gruppale, implica la parte con il tutto insieme. Una cosa molto affascinante di questa fase (chiamata pure di de-cristallizzazione o unfreezing da Lewin 1935) caratterizzata dalla messa in discussione dell’atteggiamento precedente, è proprio che è individuale e gruppale in modo molto sincronico o per lo meno ciò che accade al gruppo accade anche alla maggior parte dei p. L’individuo vive la sua personale esperienza in risonanza continua con quella del gruppo e degli altri e il gruppo come spazio di vita risente e si muove sempre in relazione a un movimento individuale più o meno significativo. 
Da gestaltista guardo questa fase con una convinzione: ciò che è funzionale nella relazione è sempre quella possibilità di movimento con il quale sciupare l’arroganza del fisso, spostarsi in un vuoto e creare. E tutto questo vale sia tra le persone che nella persona. Nel fisso c’è un “io che comanda” (come intitola un’opera di Idries Shah) e accade nella persona e nel piccolo gruppo, del resto un piccolo gruppo può esser guardato come un soggetto in relazione con le proprie parti interne. Una difesa dice molto del soggetto e una difesa di gruppo può dire tanto di lui: quando difatti un gruppo adotta un certo tipo di difesa questa diviene quello che il gruppo fa, e ciò che fa è in sostanza come il gruppo è. 

La difesa di gruppo così come il sintomo di una persona diviene sempre una porta d’ingresso. 

In ambito formativo come in ambito terapeutico (si tratta ugualmente di esperienze accomunate dal fatto che permettono il nutrirsi di qualcosa di nuovo) ciò che funziona è scalfire prima quella ‘presa’ cristallizzante esclusiva e talvolta nascosta dei nostri comportamenti non più funzionali con le loro norme intrinseche e piene di pregiudizio e poi funziona essere nuove possibilità, in un ambiente protetto. 

E’ importante la motivazione ad attraversare con coraggio nuovi punti di vista verso sé e la propria esistenza e in un lavoro di gruppo come nel T-group le altre persone (come testimoni vivi!) divengono specchi funzionali a suggerire e rimandare nuovi sguardi sul sé. Nel T-group accade naturalmente quello che nella relazione con il terapeuta equivale a quello spazio dove il paziente può confrontarsi e può vedere le sue varie voci, quello che in setting gestaltico è permesso attraverso la tecnica della sedia vuota e del monodramma. Parlando del gioco di specchi del piccolo gruppo al T-group o del dialogo della persona con varie parti del sé ci si riferisce sempre all’atteggiamento consapevole rispetto al proprio senso di pluralità. Con un movimento nella pluralità l’individuo può trovare la possibilità di costruire qualcosa di nuovo, di migliore per sé e secondo sé stesso. 

Nella migliore delle ipotesi accade che tante parti di sé iniziano a guardarsi da una nuova distanza: le parti stesse, non più appiccicate e pre-venute le une verso le altre, possono così comunicare con la propria forma e il proprio volere e con le proprie sensazioni ed emozioni di fronte alla forma e il volere delle altre, e così via. Per esserci relazione occorre uno spazio e dove c’è ‘appiccicaticcio’ non succede nulla. Il dialogo tra le varie parti del sé come attori della propria esistenza prosegue finché la persona con la sua consapevolezza cessa di sentirsi spinta dalla necessità che sia solo qualcuno dei dialoganti a vincere e inizia invece ad assaporare una nuova sintesi (tra una qualche tesi e una qualche antitesi) che è come una nuova voce, un nuovo attore che integra varie parti o qualità degli altri. 

ll contatto vivo e carico di energia c’è quando succede qualcosa in uno spazio dove qualcosa di significativamente nuovo può succedere e in questo senso il contatto avviene solamente ad una distanza efficace, dove si crea un vuoto fertile, perché solo nel vuoto c’è spazio per qualcosa che prima non c’era e solo nel vuoto c’è spazio per un atto creativo. La variabilità dello spazio è ciò che dà luogo all’interazione, allo scambio. L’arte del terapeuta e pure quella del trainer sta in definitiva proprio nel rimanere a quella distanza efficace dove avviene qualcosa senza avvicinarsi troppo e senza allontanarsi pena l’interruzione del contatto e dell’energia. La funzione di questo nuovo spazio abitabile è quella di permettere l’accettazione delle parti del sé (il plurale) e di solito può avvenire proprio dopo averle guardate, averle ‘fatte’ e averle lasciate esprimersi. La persona tende a districarsi così dalla matassa che inizialmente c’è e che si può individuare come il sintomo. 

Il sintomo è una costellazione compatta del sé con il quale si presenta la persona nella richiesta d’aiuto. Nel sintomo è come se mancasse spazio. Considerando come punto centrale del cambiamento l’accettazione, questa diviene, ancora, l’abitare uno spazio nuovo dove il confronto dei poli dà differenziazione. Ogni polo è sempre in relazione a ciò che non è, e sant’Agostino intende bene dicendo “il male non esiste, è solo mancanza di bene”. 

Buber dice “all’inizio è la relazione” e la figura è sempre in relazione allo sfondo; nella dinamica figura/sfondo la figura che sale come oggetto di consapevolezza è in relazione ad uno sfondo che la mantiene o la sostituisce in un rapporto continuo con la figura stessa e l’ambiente. Ogni oggetto di consapevolezza è in relazione a ciò che la tiene su e a ciò che sta sotto e che potrebbe prenderne il posto in relazione all’ambiente. “Molti sostengono che due stati d’animo sarebbero ontologici per l’uomo e ciò vuol dire che tali stati d’animo sarebbero indispensabili per la condizione umana” (Spaltro). C’è bisogno di movimento, di differenziazione. 

Un corpo morto non ha movimento se non meccanico e meccanico è un termine ideale per pensare all’aspetto compatto del sintomo. Cambiare è scompattare, distinguere e muovere le diverse risorse, uscire da una matassa; cambiare è accettare, un po’ come nel gruppo cambiare è appartenere. In Gestalt il sintomo è qualcosa dove il tutto è bloccato, non una parte singolarmente intesa; è qualcosa dove tutte le parti restano fregate, fisse, sconosciute al sé per funzionalità, e se funzionalità lo lego a movimento va da sé che dis-funzionalità è legato a fisso. Del resto anche nell’esperienza con l’enneagramma (da Gurdjieff con i movimenti e le danze sacre a Naranjo successivamente con la sua rivisitazione) si tende a guardare il carattere come una fissazione e si invita la persona a permettersi tutte le altre nuove possibilità di movimento. Parlare del sintomo come un ‘oggetto’ in cui c’è una fissazione compatta mi fa pensare a quella fase del T-group che è il gelo, freezing, con tempo e spazio arenati e fissi e che è seguita da uno scongelamento quando l’energia trova un canale per uscire (unfreezing). 

Il gelo del piccolo gruppo è l’ingresso per la fase del cambiamento con la potente fuoriuscita di calore ed energia. Parallelamente, riguardo alla persona “il sintomo costituisce spesso la porta d’ingresso essendo come un ‘richiamo’ specifico della persona” (Ginger).