Sull'esperienza del T-group

(Georges Seurat)
Ho conosciuto il T-group nel 2003. Frequentavo l’indirizzo di psicologia dell’età evolutiva, al tempo era come se la ‘squadra’ che avevo deciso di seguire avesse come tridente Vygotsky Bruner e Piaget. Erano questi tre colossi a riempire di molto i miei libri e i miei esami e la cosa mi stancava già da un po’, sentivo che la mia immersione negli studi era meccanica, stanca e passiva. Un caro compagno mi accennò delle sue attività da laureato, con pacata esaltazione e un’affascinante e modesto modo di presentarmele mi parlò di laboratori di sensibilizzazione che riunivano molti partecipanti (soprattutto studenti universitari) per tre giorni nel fine settimana in un convento e la cosa mi affascinò non poco, mi entusiasmava se non altro proprio l’idea di allontanarmi ed essere in trasferta insieme a tanta gente per più giorni. Si chiamava Training group (o T-group). 

Sapevo esistere la parola ‘residenziale’ per questo tipo di esperienza formativa e la mia idea di residenziale riconduceva ad un’unica esperienza fatta di tre giorni, un’esperienza formativa che ricordavo come qualcosa di molto intenso sia nelle attività che nell’esperienza totale di quei giorni nel luogo che ci ospitava. Il T-group era comunque una novità per me, anche se riecheggiava nella mia preparazione universitaria come sigla in qualche testo non ne conoscevo l’esperienza. 

Mi fu presentato come un laboratorio di sensibilizzazione alle dinamiche di gruppo, un’esperienza formativa basata sull’esperienza stessa dello stare insieme e del convivere tra e con persone, condividere uno spazio e un tempo, prendere insieme decisioni, discutere, conoscersi. 

Mi incuriosivo a riguardo, chiedevo: “ma praticamente cosa si fa?” e mi si rimandava il fatto che si sarebbe stati insieme su quello che accadeva. Ne parlai con altri compagni e decidemmo di iscriverci, c’era tanta aspettativa informe, una fertilità, una grande eccitazione. 

Il T-group era qualcosa di nuovo e già suggeriva una strada interessante anche in quell’attitudine allo studio che come dicevo era meccanica e passiva nella relazione con l’oggetto di studio stesso. 

Quel giorno di aprile arrivammo puntuali dopo una miriade di curve in salita, di mattina presto. C’accorgemmo subito che con noi c’erano un sacco di persone, quasi un centinaio di partecipanti in tutto; tutti in una grande sala, soltanto persone e sedie, una decina di docenti e assistenti da una parte e tutti gli altri partecipanti da un’altra. Fummo invitati a iscriverci in uno di quei foglioni bianchi appesi nella stanza e furono così composti 7 piccoli gruppi di 12/13 partecipanti. La consegna fu di iscriverci cercando di non andare con le persone che conoscevamo di più. Furono tre giornate coinvolgenti costruite come in un’intensa palestra per la relazione e con la partecipazione di tutti. Entrammo prepotentemente in uno spazio dove qualcosa di noi più o meno arrivato lì addormentato seppe prendersi un sopravvento, con dolore o aggressività magari, con piacere anche! E questo qualcosa poté non essere altro che un senso del noi stesso, ciò che indica il rapporto che ognuno ha con le proprie sfaccettature e voci interne, il movimento nell’essere plurale. Dopo quell’esperienza nel 2003 ne seguirono altre fino al 2006 e in tutto ho partecipato a quattro laboratori, in quattro piccoli gruppi diversi, con 4 trainer differenti. 

Dopo la prima esperienza mi ero prefissato di ripeterla più volte proprio per riuscire in qualche modo a scindere ‘come sono io in un’esperienza auto-centrata’, cercando in qualche modo le mie coazioni a ripetere (o la mia tipica modalità per appartenere diciamo), da ‘come funziona un T-group’ invece, cos’è in quanto a strumento di intervento. Volevo quindi approfittarne per me giacché esperienza ricca e continuare ad affascinarmi allo strumento stesso del laboratorio per apprenderne professionalmente. In esso riconobbi da subito una forte tendenza a comprimere il soggetto verso un passaggio per l’appartenenza e una cosa era riconoscerla comunque e un’altra starci dentro, c’era da diventare quasi qualcun altro, o qualcos’altro! 

Nei miei ricordi come in quelli dei miei compagni c’è sempre l’immagine di un ‘imbuto’ attraverso il quale passa l’esperienza stessa al T-group. L’esperienza parte di solito con la sensazione della somma di parti distinte (i partecipanti che giungono con la propria identità singolare) ed è macchinosa e fredda. Successivamente si comprime a livello di spazio e tempo dando la sensazione che il luogo dell’esistenza non può che essere quello e che allo stesso tempo sintomo dell’esistenza non può che essere il presente: ciò convoglia quell’iniziale somma scontata al cospetto di una creazione nuova, di qualcosa di ‘diverso’ e di ‘di più’ della somma iniziale, ‘di più’ in virtù della funzione-contesto: l’appartenere ad una pluralità è subitamente percepito come più evolutivo rispetto alla situazione e al luogo presenti. 

Una cosa molto interessante è rispetto alla relazione tra pensare e fare (come atti ben distinti per così dire nella dimensione del tempo). Nell’esperienza si giunge a una costruzione plurale (variopinta!) dove lo spazio tra queste due azioni tende notevolmente ad annullarsi e questo è sicuramente l’effetto più accattivante di un laboratorio esperienziale come il T-group che fa perno sull’ auto-centratura. E’ un po’ come se quella latenza tra pensare e fare si annulla in funzione del senso di appartenenza al gruppo come a sé. Il soggetto arriva conoscendosi, si disconosce nel confronto con gli altri, e poi si accetta appartenendo a qualcosa di diverso; tra ‘si disconosce’ e ‘si accetta’ tende progressivamente ad annullarsi nel soggetto la latenza mentale tra pensare e fare portandolo ad essere più sentitamente quello che è. 

SUL SETTING 

Il setting del T-group è molto affascinante e prepotente, e mi diverte questo aggettivo pre-potente. Lo utilizzo ovviamente in modo informale e con un significato emotivo e molto personale. Sta di fatto che il dispositivo che l’auto-centratura crea è qualcosa di veramente forte; l’esperienza è in grado di mettere in forte discussione (e talvolta in tragica) tutti gli schemi comportamentali nei quali si vive tutti i giorni e con i quali, peraltro e soprattutto, si giunge di diritto muniti alla partenza di un laboratorio residenziale così come nella maggior parte degli incontri nella vita. Si arriva sempre con la propria carta d’identità, il proprio cv, qualcosa nel quale facilmente ci si può riconoscere noi stessi per primi e l’esperienza del T-group dimostra che quando sentiamo di svincolarci da questi artefatti (nel senso di modelli creati con arte!) per affacciarsi nel buio del vuoto dell’esperienza inizia a crearsi un cambiamento tangibile fondato sull’accettazione di sé, un atto di per sé creativo poiché permesso da uno sguardo nuovo. Un sé lasciato in pace mi viene da dire e, proprio perché è più difficile creare la pace piuttosto che la guerra, è veramente un atto creativo. L’auto-centratura dà uno spazio al sè per farlo sentire realmente in ciò vuole. 

Per iniziare al setting caratteristico di questo lavoro utilizzo soprattutto il testo a cura di Guido Contessa (ARIPS) “T-group – storia e teoria della più significativa invenzione sociale del secolo”. 

· Dispositivo spazio-tempo: per un tempo determinato e in uno spazio ugualmente determinato un gruppo di persone si riunisce in cerchio. Tale cerchio diviene lo spazio di vita dei partecipanti e il qui e ora è una riduzione del tempo alla sola dimensione del presente, che è quella dell’esperienza; la memoria e la speranza-progetto sono dimensioni di sfondo, che non possono essere escluse, ma che sono chiamate ad intervenire nel presente sotto forma di traduzione esperienziale. Il contratto iniziale tra i partecipanti e lo staff garantiscono questo dispositivo di contrazione che ha la funzione nel lavoro di spingere alla liberazione di una grande quantità di energia che è quella che permette le forme di cambiamento. La contrazione è dunque una sorta di ‘costrizione’ che limita quella dimensione spazio temporale solita nella vita di tutti i giorni in cui gli individui possono fuggire nei loro più svariati modi. 

· Scenario della complessità: di fronte alla complessità mi sono sempre posto pensando che parla della relazione tra due caratteristiche della vita, la presenza di infiniti bisogni e quella di limitate risorse. I teorici della complessità sostengono che essa non suggerisce la risoluzione di un problema quanto soprattutto una forma di consapevolizzazione dello stesso. Questo è ciò che accade in un T-group, vivere lì la complessità della vita spinge al rendersi conto di essa più che a risolverla. E’ interessante una frase di Morin a proposito: “l’unica conoscenza che valga è quella che si alimenta di incertezza e il solo pensiero che vive è quello che si mantiene alla temperatura della propria distruzione”. La complessità (e dunque il caos, esperienza evidente in un T-group) è ricca di poli emotivi auto-sovrapponentesi e che si sostituiscono di continuo. Chi ha partecipato ad un T-group ha vissuto esperienze fulminee tra l’onnipotenza e l’impotenza, il caldo e il freddo, il senso di fiducia e quello di sfiducia, l’appartenenza e l’estraneità e così via. Tutto questo è assolutamente frutto del contratto iniziale, lo stesso che genera quel dispositivo prima descritto con la contrazione spazio/temporale. La complessità esperita ad un T-group si comporta e si rappresenta come una pentola sul fuoco: dall’iniziale caotico muoversi delle molecole si crea pian piano un movimento uniforme in una direzione, quale direzione? Non esiste risposta a questa domanda, per lo meno non esiste una risposta a priori, esiste solo il fenomeno che dal caos crea un’appartenenza in forma di direzione univoca delle persone verso un progetto di gruppo così come le molecole verso una direzione nella pentola riscaldata o come il fascio, prima di alcuni e poi di tutti gli elettroni di gas, nel laser. “E’ lo shock, il trauma, il crollo delle certezze, lo scongelamento (unfreezing di Lewin) che fa passare un sistema da un ordine statico e mortale alla “disorganizzazione” e pone le basi per un cambiamento. In termini psicosociali è il conflitto, lo scontro fra diversità, inteso come non-patologico, non distruttivo.” (Sardella dal libro a cura di Contessa sopra citato). “Una lotta-per e non una lotta-contro” come ricorda Enzo Spaltro. 

· Fattore spazio: come Lewin suggeriva, in psicologia è utile utilizzare il linguaggio dello ‘spazio’. Termini come vicino/lontano, dentro/fuori, sotto/sopra, davanti/dietro sono assolutamente pertinenti e funzionali all’esperienza della relazione intra e inter personale. L’accumulo energetico è proprio la risultanza della sovrapposizione dei tanti ‘spazi di vita’ quanti sono gli individui partecipanti al piccolo gruppo; si crea sovrapposizione, compressione, accumulazione, fusione, un movimento di energia che affianca, scontra e mette in continua relazione qualitativa l’io e il noi. In una escalation del genere ogni gesto, ogni parola, respiro e silenzio acquisiscono un definito e tangibile spazio tale per cui trasportano sempre un pienissimo significato. Ogni movimento prende spazio e costringe lo Spazio a ristrutturarsi implicando il movimento di ogni individuo componente e del gruppo stesso come intreccio generale. 

· Fattore tempo: c’è una forte entrata in scena del ‘qui e ora’ e la sua presentificazione produce un vissuto di arresto del corso del tempo dove silenzi di pochi minuti appaiono interminabili e dove il momento in riferimento a poche ore prima appare come uno ‘ieri’. Il passato e il futuro sembrano progressivamente non riuscire a trovare più spazio se non come vissuti legati al comportamento e all’atteggiamento in atto nel presente da parte del gruppo e del partecipante. Tutto è ciò che è osservabile e gestibile dal e nel ‘campo gruppale’ dice Contessa. L’energia si accumula e si dirige sempre di più verso l’unico oggetto del presente, il sé ed il noi. Il passato è in qualche modo la dimensione della conoscenza e il futuro quella della scienza: il presente diviene lo spazio e la dimensione della consapevolezza, della coscienza, del contatto fra verità e certezza. Nel presente l’esperienza accade, è osservabile, si sente e c’è la possibilità di esplorarla e sperimentarla. 

· Il trainer: partecipa, c’è, è un partecipante fondamentale, si presenta attraverso il contratto iniziale come colui che conduce e facilita l’esperienza formativa. Lui ha una grande responsabilità per il mantenimento delle migliori condizioni favorenti l’apprendimento, la sensibilizzazione per l’appunto. La sua professionalità consiste soprattutto nel mettere energia nel gruppo e nel favorire così l’incanalamento funzionale dell’energia del gruppo. Il gruppo matura energia e la matura a partire da ogni suo componente; dapprima c’è come un addensamento energetico in ogni fuoco (in ogni partecipante) e dopo c’è invece un direzionamento dell’energia accumulata verso l’obiettivo del cambiamento, l’appartenenza. Diciamo che il processo generale che convoglia i fuochi del gruppo verso un imbuto che ne monopolizza la direzione dipende in grandissima parte dal gruppo stesso, dalla sua esperienza e il compito del trainer è quello di smistare le molecole calde e quelle fredde dai contenitori dei partecipanti. Immaginiamo che ognuno di questi arriva in qualche modo con due contenitori, dove in uno c’è il ‘freddo’, gli stereotipi, le abitudini, le certezze, e nell’altro il ‘caldo’, la motivazione a cambiare, le gestalt incompiute che recano tensione ecc: attraverso la sua partecipazione il trainer cerca di prendere il caldo di ogni fuoco e convogliarlo nel canale di gruppo cosicché sia possibile successivamente utilizzare questo calore per scaldare i contenitori freddi di ogni partecipante. Qualcuno ha chiamato il trainer il ‘demone di Maxwell’ riferendosi alla teoria del campo elettro-magnetico proprio del fisico J. Clerck Maxwell. Anche in un ruolo come quello del trainer di piccolo gruppo esistono le determinanti legate allo stile personale (autoritario, collaborativo, democratico, anarchico ecc e da qui appunto gli esperimenti sull’influenza degli stili di conduzione di Lewin stesso) ma c’è da dire che in linea generale è richiesto di lasciare più spazio possibile all’incontro tra le persone, al gruppo e al suo auto-centrarsi. E’ questo ciò che rende il compito del trainer (assieme poi all’osservatore) particolarmente delicato sui tempi, i tempi dell’intervento (in cui ‘mette le mani dentro allo spazio per smistare le molecole calde e fredde’) e i tempi del silenzio, dell’astensione. 

Lo staff di un laboratorio T-group è di solito composto dalla presenza di un trainer e di un osservatore in ogni Piccolo gruppo. Da un lato al conduzione è intervenire e dall’altro osservare. In entrambe le sfaccettature c’è tanto il partecipare come diretta sintesi di quel binomio.